ESCLUSIVA - Patrizio Sala: "Serve la miglior Lazio, sarà un Toro da battaglia!"
Vincere uno scudetto ha sempre il suo fascino, la sua proverbiale unicità. Per molti calciatori è il momento più alto, nobile, della propria carriera, anche più di titoli europei o altre prestigiose affermazioni. Il calcio nostrano, soprattutto quello agée, ne annovera, eccome, di imprese, di protagonisti, di volti legati indissolubilmente a quel tricolore. Vincere poi con determinate casacche, consente di diritto di passare alla storia, non solo del club di appartenenza, ma dell’intero movimento: vincere a Cagliari, a Verona, a Genova non ha lo stesso significato di quando, invece, a cucirsi sul petto la coccarda più prestigiosa provvede l’aristocrazia del nostro calcio. Forse la piazza dove trionfare fa sempre notizia, visti i dirimpettai e il loro palmarès, è quella della Torino granata. Quanta storia, quanti miti, che potenza sa esprimere quella casacca. C’era una volta un Torino che i propri cugini li trattava veramente male, senza regali o cortesie, come si converrebbe tra parenti. Anzi, il primo dispetto, era loro riservato. Nulla di censurabile, sia chiaro. Solo la schiacciante supremazia fatta pesare, in campo e fuori. Era il Torino che nel 1975-76 la spuntò proprio contro i rivali di sempre, due punti (allora c’erano i due punti per ogni vittoria) per dividere l’inferno dalla gloria. Due punti da far pesare alla Torino bianconera e a tutti gli innamorati della Vecchia Signora sparsi per la penisola. Due punti per vincere uno scudetto che sapeva di rivalsa. Meritata rivalsa. Era il Torino dei gemelli del gol, Pulici e Graziani, del sergente di ferro in panca, quel Gigi Radice con il trench d’ordinanza, nero, stretto in vita, quasi a sfidare quello beige e a larghe falde del Trap, dall’altra parte del Po. Era il Toro di Pianelli, era, ed ancora lo è, la Juve degli Agnelli. Ma Torino, città magica e diabolica allo stesso tempo, non dimentica e l’anno dopo consente ai bianconeri di rifarsi, e con gli interessi: lo scudetto passa sponda, davanti ad un super Torino ci arriva una super Juventus, fatta di campioni dalla memoria d’elefante, che i torti subiti non li scordano facilmente. Poi la storia di questa infinità rivalità scriverà altre pagine, ma nulla sarà come prima, col Toro che negli anni ’80 sparirà pian piano dai radar di Piazza Crimea, allora quartier generale bianconero. La redazione del Lalaziosiamonoi.it, in esclusiva per i propri lettori, ha raggiunto uno dei protagonisti di quelle stagioni, mediano dai piedi buoni e colonna granata. A lui abbiamo chiesto di Lazio, di Toro, di giovani e di quanto ruoti intorno al pianeta calcio nostrano. Ecco cosa ci ha risposto Patrizio Sala.
Mister, Torino-Lazio partita intrigante e ricca di spunti? Condivide?
“Assolutamente sì. Sono sicuro che assisteremo a un confronto a viso aperto, così come pretendono dalle loro squadre i due allenatori, poco restii a chiudersi e a usare difensivismi che non appartengono alla loro cultura tattica. La Lazio sta bene, credo leggermente meglio, ma non di troppo, rispetto al Torino. Viene dal trionfo contro i viola, ha dominato l’incontro, ha mostrato tutta la forza di cui dispone al momento al cospetto della squadra di Montella, protagonista di un passaggio a vuoto, evidente risultato di differenti componenti. La squadra di Pioli ha molta qualità, distribuita in ogni reparto, che porta i giocatori ad esprimersi come stiamo vedendo ultimamente. Di contro c’è un Toro che, sì, viene dalla sconfitta contro lo Zenit, ma ripeto, contro lo Zenit, squadra ricca, dotata di ottimi giocatori e spesso a proprio agio nell’altra competizione europea, la Champions. Ventura e i suoi, dunque, hanno trovato sulla loro strada, una delle compagini più quotate della kermesse europea; non ne farei - e Ventura non lo fa - un dramma: l’impresa di Bilbao è quanto serve all’ambiente granata per fare i conti con la proprio storia e riappacificarsi con anni di cocenti delusioni. Il Toro è dunque galvanizzato; Ventura dispensa ottimismo per il ritorno di giovedì prossimo, ma non vuole lasciare nulla per strada: la Lazio deve stare molto attenta e dare tutto quello che ha per uscire dal terreno di gioco col bottino pieno”.
Ventura, appunto. Mi dà un giudizio di questo allenatore, che ha raccolto poco rispetto a quanto fatto vedere negli anni? Ritiene che avrebbe potuto meritare una chance con una grande del nostro calcio?
“La chance di allenare un grande club la merita chi ha fatto vedere cose egregie con le proprie squadre. Lui lo ha fatto, il Pisa (stagione 2007-2008, ndr), il Bari (2009-2010, ndr), il campionato disputato dai granata la scorsa stagione; ecco, come me le chiama se non dimostrazioni di abilità e di competenza? Il calcio è strano, si sa, è fatto di millantatori e di gente che fa il proprio lavoro nell’ombra, senza sgomitare. Non sempre emergono quanti lo meritano; io credo che Ventura abbia raggiunto una sua dimensione, è considerato, a ragione, un decano della categoria. Ha una sua precisa idea di calcio, assai offensivo, che riesce sempre ad affermare. Personalmente ritengo molto complicata la partita di ritorno in Europa League del prossimo giovedì, contro i russi, ma non mi sorprende affatto che Ventura la stia preparando come se fosse ancora tutto estremamente in bilico”.
Entriamo nelle cose di casa Lazio dalla porta principale, vale a dire l’esplosione di Felipe Anderson. Un anno fa lo si considerava l’oggetto più misterioso presente nello spogliatoio della Lazio, ad oggi è valutato come uno dei più puri talenti a disposizione di Pioli, tanto che dalla Premier e dalla Spagna si paventano interessamenti e richieste di notizie. Cosa cambia nella mente di un giocatore, oltre ai progressi tecnici e fisici, per giustificare questa diversità di risultati?
“Prima di tutto va detto che il ragazzo era ed è ancora molto giovane. Non è sempre facile, per gli atleti sudamericani, lasciarsi famiglia, tradizioni, stili di vita a cui sono abituati ed assumerne di nuovi e molto stressanti come sono quelli europei, Italia compresa. Ritengo che la scorsa stagione fosse per lui quella dell’ambientamento necessario, ma conoscendo un po’ il calcio italiano e anche quello romano, credo ci si aspettasse un atleta formato, capace di incidere sin da subito. Errore più grande non si poteva fare, anche perché la guida tecnica che gestisce l’atleta ha delle inevitabili ripercussioni sulla possibilità o meno di esprimersi dei calciatori. Pioli mi pare tenere in grande considerazione i mezzi tecnici del ragazzo; spesso vedo che il brasiliano spazia per tutto il fronte d’attacco, sintomo che il tecnico laziale gli consente anche molta libertà in mezzo al campo. Reja aveva le sue certezze e le sue valutazioni, forse un po’ più guardinghe rispetto al tecnico parmense, e questo può aver penalizzato in qualche modo Felipe Anderson. Al tecnico goriziano, va però senz’altro dato il merito di aver avallato questo acquisto, di grande spessore e prospettiva per la Lazio tutta”.
L’altro patrimonio della società laziale si chiama Antonio Candreva, anche lui giunto tra scetticismi e malumori fino ad arrivare a d oggi, dove molti tifosi lo vedrebbero addirittura il capitano delle prossime stagioni. Che idea si è fatto, a riguardo?
“Che Candreva avesse talento lo si sapeva da tempo, lo sapevano tutti gli addetti ai lavori. Anche qui: bisogna concedere il tempo agli atleti, di maturare, di trovare il proprio equilibrio dentro e fuori dal campo. Quando ero un giovane giocatore, si diceva che la maturazione definitiva degli sportivi non arrivasse che verso i ventisette, ventotto anni. E io ne sono ancora convinto. Molti atleti regolarizzano la propria vita privata, molto si sposano e mettono su famiglia, trovano cioè quella giusta misura tra pubblico e privato. Quando ciò avviene, i risultati non tardano ad arrivare. Io non conosco Candreva e le sue vicende private, ma dà l’impressione di essere sereno e consapevole dei propri mezzi, anche quando magari non gira come dovrebbe, lì in mezzo al campo. Se a questo aggiungiamo i numeri che sono in suo possesso, ne tiriamo fuori quello che oggi giorni si definisce un top player. Non ci sono dubbi”.
Concludendo, un mix di domande veloci per altrettante risposte veloci: senza entrare troppo nello specifico, non le sembra che la qualità dei dirigenti nostrani sia bassa e sia specchio della decadenza che vive il nostro Paese? Roma, Napoli e Lazio: è finita qui la lista delle pretendenti al secondo e terzo posto? La crisi delle milanesi: chi ha sbagliato e dove?
“Cominciamo col dire, che condivido la sua valutazione circa la qualità improbabile di molti nostri dirigenti ma soprattutto quella che li vede immagine riflessa delle tendenze nel nostro Paese. Senza retorica, ma se non si riparte dalla ricostituzione del movimento calcistico fin dagli anni delle scuole, addio vivai, addio generazioni di atleti da formare. Per la lotta alle due piazze dopo quella occupata dalla Juventus, non vedo altre squadre che quelle da lei citate: la Fiorentina non ha un attaccante per pungere quando è il momento, cosa che invece fanno egregiamente Klose e Higuain. È la Roma quella che deve preoccuparsi di più, ha rallentato troppo. Infine, le milanesi: quando si sbagliano le valutazioni, si sbagliano i progetti. Fa strano non vedere rossoneri e nerazzurri ai piani alti, ma tant’è. Tempo per rimediare, quest’anno, mi pare scarseggi. Se saranno capaci di fare chiarezze sui programmi, forse nel breve riacquisteremo due protagoniste del nostro calcio. Se perderanno altro tempo, difficile invertire la rotta”.