FOCUS - C'era una volta la Brasilazio: l'esodo di talento che ha rilanciato il calcio in Brasile

Traduzione a cura di Lorenzo Cipollone, Saverio Cucina e Raoni Pereira.
12.06.2016 07:00 di  Laura Castellani   vedi letture
Fonte: Lalaziosiamonoi.it
FOCUS - C'era una volta la Brasilazio: l'esodo di talento che ha rilanciato il calcio in Brasile

Una combinazione particolare, quella che miscela i colori verdeoro con quelli del cielo. "Brasilazio": è questo il neologismo prestato alla società biancoceleste dalla stagione 1931/32 alla 1934/35, un club che in quegli anni accolse quattordici giocatori italobrasiliani. Più l'allenatore Amilcar Barbuy, figlio di emigrati italiani in Brasile, approdato nella capitale proprio nell'estate del 1931, portando con sé altri quattro giocatori brasiliani - che si andranno a unire a Juan e Octavio Fantoni, i cugini ingaggiati dai capitolini già nella stagione precedente -. La prima Brasilazio apparsa agli occhi della stampa e del pubblico, proprio nei primissimi anni trenta, proprio in pieno fascismo, si componeva spesso di nove oriundi su undici calciatori. Nel luglio del '31, nove uomini attraversano l'oceano e sbarcano a Genova, per proseguire poi il viaggio fino a giungere nel cuore della Penisola, nella Capitale. In Brasile, quello a cui si è assistito nei primi anni Trenta, è stata la prima vera "emorragia" di giocatori verso l'Europa: non solo un avvenimento assolutamente inusitato, ma che ha anche inaugurato un nuovo modo di intendere il calcio. L'unica soluzione per arginare l'esodo di calciatori professionisti, è rendere appetibile la permanenza in patria. Il calcio professionistico, in Brasile, parte da qui.

ESODO - Negli ultimi dieci anni, il calcio brasiliano si è privato di 4mila giocatori professionisti. Ma l'esodo di calciatori ha radici vecchie almeno 86 anni. Un salto temporale che conduce negli anni '30: se gli italiani intarprendevano il viaggio oceanico già da almeno cinquant'anni per cercare fortuna in America, anche in Brasile si assiste a un fenomeno simile. Un viaggio di quindici giorni separava i sogni di un calciatore brasiliano dalla realizzazione: quindici giorni è il tempo che si impiega, saliti su una nave a Santos, a raggiungere il porto di Genova e cercare di costruire la propria carriera sportiva in Italia. In un servizio curato dall'emittente televisiva brasiliana Globo, è lo stesso figlio dell'allenatore Amilcar a raccontare di questo viaggio, mostrando una foto scattata sull'imbarcazione. Che non ritrae solo la propria famiglia e il proprio papà: "C'era mio padre, Pepe (Rizzetti, ndr), Del Debbio, Tedesco, Filò (Guarisi), mia madre, mia sorella, la moglie di Del Debbio, la loro figlia e io". Il gruppetto sbarca a Genova il 22 luglio. Quindici giorni dopo, attracca al porto ligure anche un'altra imbarcazione, tra i sudamericani che hanno compiuto il loro viaggio ci sono Castelli, De Maria e Serafini, tutti e tre ingaggiati dalla Lazio. Sette giocatori, tutti ex Corinthians, fatta eccezione per Rizzetti, Tedesco e Serafini. 

BRASILE, ANNI TRENTA: GLI ALBORI - Non sono anni facili. Non lo sono in Europa, che deve fare i conti con i totalitarismi in affermazione, una crisi economica pazzesca esplosa nel '29 dopo il crollo della borsa di Wall Street, un clima politico tesissimo, che non lascia presagire nulla di buono. Non sono anni facili nemmeno in Brasile, dove è il colpo di stato di Getulio Vargas a disserrare il nuovo decennio. Il calcio professionistico non esiste. I giocatori di calcio, nonostante il talento, sono ancora costretti negli angusti margini del dilettantismo, dove girano pochi soldi e poche soddisfazioni. In Italia, invece, tira tutta un'altra aria. In particolare, è un club della capitale la tentazione. La Lazio vuole rilanciarsi e, al momento, i sudamericani sono i migliori, con la sfera di cuoio tra i piedi. Ci sanno fare, possono essere la soluzione. Il club biancoceleste si fa avanti. Ma come convincere dei ragazzi brasiliani a fare le valigie, intraprendere un viaggio di quindici giorni, talvolta portando con sé mogli e figli, per raggiungere l'Italia? I soldi sono molto persuasivi, ma lo sono soprattutto le ambizioni, per un atleta stufo di campionati marginali. Non solo calciatori, però. C'è anche un mister, a ricevere una chiamata: "Mio padre accettò l'invito di andare ad allenare la Lazio. Con l'arrivo dei nove giocatori, la Lazio fu soprannominata "Brasilazio"", racconta ancora Barbuy figlio. 

PASSEGGIATA IN EUROPA - Vi ricordate quella fotografia scattata su una nave? C'era anche una bambina. E' la figlia di Armando del Debbio, Euridice: "Ero la mascotte di quella Lazio. Mio padre conosceva l'Italia ed accettò volentieri di tornarci". Un leader naturale, il terzino. Solo un leader può persuadere e convincere altri giocatori a intraprendere un viaggio lunghissimo verso un futuro ignoto. In un'intervista rilasciata negli anni '70, è lo stesso Del Debbio a raccontarsi: "Sono sempre stato quello che trascina il gruppo. Ero un leader, lo sono sempre stato. Così parlai con gli altri ragazzi. E alcuni erano spaventati all'idea di partire: "Andare in Europa? Sul serio?!?". Certo, rispondevo. Andiamo in Europa. E se non dovessimo riuscire a lavorare lì vorrà dire che avremmo fatto una passeggiata fuori, avremmo visitato l'Italia e saremmo tornati a casa". Del Debbio ha deciso: lascerà il Corinthians e raggiungerà l'Italia. Sono quattro i giocatori che si imbarcano nell'estate del '31 lasciandosi alle spalle il club di San Paolo: "Quando una squadra soffre una perdita così grande si può provare addirittura tristezza. Il Corinthians fu la squadra che più ne risentì. E ci volle parecchio tempo prima che riuscì a rimettersi in forze", spiega il giornalista brasiliano Orlando Duarte.

UN TALENTO DA REMUNERARE - Ma era possibile fare qualcosa per trattenere i talenti ed evitare un'emorragia di atleti così corposa? La lettera di Amilcar Barbuy offre una delle risposta possibili a questa domanda: "Parto per l'Italia, sono stanco di essere un dilettante nel calcio. Non lo sono più, ma questa condizione è perpetuata dal regime ipocrito del club, che lascia gli spiccioli ai giocatori per tenere il grosso dei guadagni. Sono povero, non ho nulla, vado in un paese dove sanno remunerare il talento e le capacità di un giocatore". E d'altronde, il talento di Amilcar era indubbio, come tecnico e come giocatore. Non a caso, quando nel 20 dicembre 1931 la Lazio doveva affrontare il Bari, fu proprio mister Barbuy a scendere in campo: tante defezioni e un rischio retrocessione troppo grosso per non tentarle tutte. L'allenatore italobrasiliano sa giocare, ha i piedi buoni, tanto vale convocarlo in squadra. Avrebbe aperto le marcature, Amilcar, la Lazio avrebbe vinto e si sarebbe salvata. Più soddisfazioni e più soldi: i calciatori talentuosi, in Italia, vengono pagati bene, molto di più di quanto fossero disposti i club brasiliani. Qualcosa che, però, non venne accolta bene dagli appassionati di calcio in patria. Al diffuso sentimento di tradimento - e alle accuse nei confronti di quegli "ingrati" che, in un'intervista a pochi giorni dallo sbarco in Italia, avrebbero dichiarato di sentirsi italiani e di rifiutare la qualifica di italobrasiliani, pur sentendosi legati alla terra di origine - si somma l'indignazione di fronte a stipendi astronomici: pareva inaccettabile che un giocatore venisse pagato tanto, a maggior ragione all'estero. Ma d'altronde, non c'era da stupirsi che lo spostamento di capitale umano fosse così massiccio: in Brasile, a volte, capitava che gli atleti non venissero nemmeno retribuiti. Ottantasei anni fa: un calcio diverso, un Paese diverso. Il campanello d'allarme veniva colto dai club proprio mentre la fuga di talento si stava concretizzando, ed era ormai troppo tardi per arrestarla nell'immediato. Le società riconoscevano la debolezza del sistema calcistico brasiliano ed escogitavano l'unico modo per porvi rimedio: investire per rafforzarlo. Un processo lento. Ma che ha raccolto i suoi frutti, se attualmente è proprio il Corinthians a dominare il campionato brasiliano. L'esodo di calciatori ha mescolato il verdeoro e il biancoceleste. E ha posto la prima pietra, in Brasile, per costruire un calcio più moderno.