Auguri Beppe Signori: "A Roma mi sono sentito un Re! Questa è una Lazio concreta pronta per l'Europa"
AGGIORNAMENTO ORE 14:40 - Gli auguri per il grande ex bomber biancoceleste Giuseppe Signori, arrivano anche dalla redazione di Radio Sei, che nel primo pomeriggio lo ha intercettato: "Di momenti belli con la maglia della Lazio ce ne sono molti. Dal primo anno in UEFA, alla vittoria della Coppa Italia. Ma anche le partite singole, affascinanti, piene di cose positive e pochissime negative". Con un attaccante come lui, non si può non parlare di derby: "È la partita per eccellenza a Roma. Inizia una settimana prima, con la tensione già altissima. Al mio debutto non presi mai la palla: giocai male e poi finì 0-0. La tensione era palpabile e ho fatto una brutta figura. Il miglior ricordo di quella partita? Sono tanti, e alla fine ne ho perso solo uno". Infine una battuta sulla Lazio odierna: "È una Lazio concreta che ha avuto un momento di difficoltà, ma ha le carte in regola per arrivare in Europa. Certo, l'aspirazione è andare in Champions. Ringrazio tutti i tifosi, ho sempre cercato di fare la cosa più importare. Segnare gol".
Chi nasce Re non conosce oblio. E Beppe Signori lo è stato, per i suoi 127 gol con l'aquila sul petto, ma soprattutto per l'amore viscerale che ha saputo trasmette ad un intero popolo. Quello stesso popolo che in un pomeriggio di mezza estate degli anni novanta decise di 'incatenarlo' a Roma, affinché scrivesse ancora pagine di storia a tinte biancocelesti. Proprio nel giorno del suo 47esimo compleanno, l’ex bomber biancoceleste è tornato a parlare del suo passato e del travagliato presente, in un’intervista rilasciata a sslaziofans.it: “Se vado a rivivere tutta la carriera, partendo dalla gioventù, la mia è stata fin dall’inizio una storia molto particolare. Giocavo nella squadretta del mio paese, ad Alzano Lombardo, poi a 10 anni mi ha preso l’Atalanta ma io ho rifiutato di andare a giocare a Bergamo e ho fatto bene: perché poi sono finito nelle giovanili dell’Inter, dove sono rimasto fino a 15 anni. Fino a quando, un giorno, arriva Mariolino Corso, che è stato una leggenda del calcio italiano e dell’Inter e mi dice: “Guarda, sei bravo tecnicamente, ma sei fisicamente il più piccolo di tutti i tuoi coetanei e, con quell’altezza, non puoi andare da nessuna parte. Non sei un giocatore professionista in prospettiva, quindi ti ridiamo il cartellino e puoi scegliere liberamente la squadra dove vuoi andare”. Una bocciatura del genere ti segna, molto, perché a quell’età una cosa detta da un grande per te è Vangelo. Figuriamoci poi se, parlando di calcio, te la dice uno che ha vinto Coppa dei Campioni, scudetti e indossato la maglia della Nazionale. Quindi pensi che non ce la farai mai, che ti dovrai accontentare di vedere il calcio vero solo da spettatore, allo stadio o in Tv. Ma ho deciso comunque di non arrendermi e sono andato a giocare nel Leffe, ripartendo praticamente da zero. Senza una vetrina e con quella bocciatura da parte di Mario Corso sulle spalle, sono dovuto partire dall’Interregionale, dove ho iniziato la lenta scalata: C2, poi la C1 con Piacenza e Trento, poi la B con il Piacenza e, a quel punto, ho avuto la mia grande occasione a Foggia, grazie a Zeman, a ventidue anni. Se mi confronto con quelli che hanno sfondato e sono arrivati ad altissimi livelli, solo Pippo Inzaghi ha fatto una carriera simile alla mia, partendo dai Dilettanti per poi arrivare in Nazionale, dopo aver giocato in tutte le categorie. Questo da un lato mi ha reso più forte e mi ha fatto maturare senza grandi pressioni, ma mi ha fatto perdere anni preziosi. Però, come in tutte le cose della vita, non c’è la controprova, quindi non è detto che restando all’Inter le cose sarebbero andate in modo diverso. Perché, magari, non avrei mai incontrato Zeman e non sarei mai diventato Beppe Signori, il Beppe-gol che ha vinto tre volte la classifica dei cannonieri con la maglia della Lazio. E, se devo dirla tutta, mi dispiace per Mariolino Corso, ma senza quel fisico non sarei mai stato quello che sono stato: ovvero, il Beppe Signori imprendibile per quasi tutti i difensori dell’epoca”.
C’era molto scetticismo al tuo arrivo…
“Ricordo che appena mi sono presentato a Roma, la prima domanda che mi ha fatto un giornalista in conferenza stampa è stata: “Lo sai che sei stato acquistato per sostituire un giocatore importante, un idolo come Rubén Sosa, che ha fatto 40 gol in 4 anni? Pensi di riuscire a reggere il confronto e di non far rimpiangere la sua partenza?”. Io, forse per incoscienza o per reazione, ho risposto: ‘Veramente io sono venuto per fare meglio’. E qualcuno mi ha preso subito per matto o per sbruffone. Ma io ci credevo, anche se quelle cifre mi spaventavano, perché venivo da una sola stagione di Serie A con 11 gol segnati, ma in un’altra realtà, in un altro contesto sia ambientale che calcistico. E mi metteva i brividi anche solo pensare di dover segnare almeno 10 gol all’anno non a Foggia ma a Roma; giocare non davanti ai 20.000 dello Zaccheria ma davanti ai 60-70.000 dell’Olimpico. Con l’avversario nel derby che non si chiama più Bari o Lecce, ma Roma: con il derby che dura 365 giorni all’anno. Per giunta, in una squadra ambiziosa, guidata da un presidente che ha speso quasi 100 miliardi di lire in 18 mesi perché vuole vincere. Tutte queste pressioni ti possono schiacciare, ma non mi sono mai pentito di aver detto quella frase, perché di gol ne ho fatti addirittura 49 in due anni e solo in campionato. E questo perché, grazie a Zoff, ho potuto giocare più vicino alla porta. Ma anche perché, grazie a Zeman, ho preso consapevolezza del fatto che non dovevo pormi dei limiti, ma semmai lottare per spostare sempre più avanti il limite”.
Poi quella cessione ormai certa al Parma, subito bloccata ‘a furor di popolo’…
“La mia è stata la prima e forse l’ultima storia di un giocatore già venduto che invece non è andato via, perché ormai queste cose non succedono più. Non l’ho vissuta in prima persona quella vicenda, perché io stavo in tournée in Brasile con la squadra, ma mi è arrivato tutto e soprattutto ho visto le immagini di quelle migliaia di persone scese in piazza per far saltare il mio trasferimento al Parma. E questa è la dimostrazione che in quel momento la gente laziale si identificava in me e nella mia voglia di lottare e di vincere. Di quello che rappresentava per i tifosi laziali il Beppe Signori giocatore. Potevano vendere tutti in quel momento, ma non me. Devo essere sincero, se non fosse successo nulla probabilmente avrei accettato il trasferimento al Parma, ma quando ho visto quelle scene sono stato il primo a dire: “No, io resto alla Lazio”. E ho ripagato tutti a modo mio, a suon di gol. A Roma mi sono sentito veramente un Re, perché con la maglia della Lazio mi sono preso le più grandi soddisfazioni della mia carriera vincendo per tre volte, nell’arco di quattro anni, il titolo di capocannoniere del campionato. E, a prescindere da quella corona che mi hanno messo materialmente in testa, la gente laziale mi ha fatto sentire veramente un Re: per l’affetto che mi ha regalato, per le dimostrazioni che mi ha dato tutti i giorni che ho vissuto in quella città. Vedevo tantissimi bambini che giravano indossando con orgoglio la mia maglia numero 11 con scritto Signori sulle spalle; e, ancora oggi, in tanti mi dicono o mi scrivono che sono diventati laziali o che si sono innamorati perdutamente della Lazio grazie a me, alle imprese di quella squadra e ai gol che ho segnato. E questo mi riempie d’orgoglio, perché è un qualcosa che niente e nessuno potrà mai cancellare. Ripensando ora a quegli anni e a quello che hanno fatto per me i tifosi laziali, specie in questi ultimi 36 mesi, mi viene un groppo alla gola. Sai, quando giochi e sei costantemente sotto la luce dei riflettori e al centro dell’attenzione, quasi non ti rendi conto di quello che succede intorno a te; mentre è proprio nel momento in cui smetti, in cui cala il sipario e si spengono le luci che ti rendi conti di quello che hai fatto, di quello che hai seminato: dell’affetto della gente, di quanto ti ha amato questa città e di quanto ti ama ancora la gente laziale. L’ho capito definitivamente la sera del 12 maggio quando, nonostante la presenza di tanti campioni che hanno vinto e hanno alzato al cielo trofei su trofei, la gente mi ha fatto sentire veramente e nuovamente un Re. Ecco, quella sera, durante quel giro di campo, vedendo quelle facce e sentendo il mio nome scandito da decine di migliaia di persone, tra le quali c’erano tifosi che probabilmente non mi avevano mai visto giocare con la maglia della Lazio, ho capito quanto è forte il legame con questa gente e questa squadra. Anche quella sera ho visto tante magliette celesti con quello sponsor “Banca di Roma” e il numero 11 blu stampato sulle spalle, ed è stata un’emozione difficile da descrivere. Sono uscito stravolto dal campo: e non per la fatica fisica o per i chili accumulati nel corso degli anni ma perché, all’improvviso, mi sono sentito sulle spalle il peso di quell’amore e sulla testa quello di quella corona. Io, finché ho indossato quella maglia, ho cercato di ricambiare la gente nell’unico modo che conoscevo, ovvero con le prestazioni in campo e segnando gol su gol. Ma, in fin dei conti, quello era il mio lavoro, ero pagato e pure bene per farlo. Quindi sono, e mi sento, in debito con tutti, perché essere riconosciuto ancora oggi come il capitano e il leader di quella Lazio, è una soddisfazione immensa. Perché non l’ho capito mentre le stavo vivendo quelle sensazioni, l’ho capito solo ora che è tutto finito, consegnato alla storia. La cosa assurda è che, più passa il tempo, e meglio capisci. E ti rendi conto di esser stato un punto di riferimento di un’intera generazione”.