Maurizio Manzini:"La mia Lazio, da Gazza a Rossi"

09.07.2009 14:00 di  Daniele Baldini   vedi letture
Fonte: Fabrizio Patania - Corriere dello Sport
Maurizio Manzini:"La mia Lazio, da Gazza a Rossi"
© foto di D.B. Lalaziosiamonoi.it

Campione dei team manager per militanza e interpretazione del ruolo, signo­re in panchina e ai bordi del campo di For­mello, uomo senza età perché gli anni non si dicono.E’ come il segreto inviolabile dello spogliatoio. Maurizio Manzini, dirigente ac­compagnatore della Lazio, è l’anima operati­va della squadra biancoceleste dai tempi di Maestrelli. Ha appena salutato Rossi e cono­sciuto Ballardini, fedele scudiero di qualsia­si allenatore transitato sulla panchina della Lazio. Approdo sicuro per tutti i giocatori, la discrezione è il suo stile . «Per riuscire in que­sto lavoro bisogna possedere la capacità di sapersi dare e non essere suscettibile. Nel gruppo devono sentirsi tutti trattati nello stesso modo. E poi ci vuole un’assoluta riser­vatezza. Io ho il mio ufficio vicino allo spo­gliatoio. Ma lo spogliatoio è sacro. E della ri­servatezza è doveroso farne una religione. In più, è necessario buttare l’orologio. Per fare il team manager non puoi certo timbrare il cartellino». Questa dote gli ha consentito di farsi riconoscere e apprezzare sotto ogni ge­stione, accompagnando gli ultimi quaran­t’anni (o quasi) di storia della Lazio, l’unica bandiera a cui si è consegnato. I presidenti passavano, lui restava, devoto alla causa.

«Dovrei citarne tanti. Calleri mi ha fatto di­ventare un dipendente, trasformando il mio sogno in realtà. E Cragnotti ci ha fatto vince­re quasi tutto. Ma Lotito ci ha permesso di continuare a vivere. Ora, magari, verrò accu­sato di piaggeria. Io, però, sono laziale den­tro. E non potrò mai dimenticare cosa pas­sammo, con la squadra, nel luglio 2004. Ero in Giappone con 15 giocatori, non si sapeva niente del futuro della società. Rientrammo a Roma pensando che potesse concretizzar­si il fallimento. Tutti saremmo rimasti senza un posto di lavoro e la Lazio sarebbe spari­ta. Un dolore insopportabile. Lotito avrà i suoi lati spigolosi, però è il presidente che ha salvato la Lazio. E lo ha fatto lui, non al­tri ».

Ripartiamo dall’inizio. Come diventa la­ziale Maurizio Manzini?
«Non lo so, posso dire di essere l’unico in una famiglia di romanisti. Mio padre mi por­tò per la prima volta all’Olimpico in occasio­ne di un derby, perso dalla Lazio. Alla fine, esultando, mi disse: “Maurizio, hai visto? Ab­biamo vinto”. E io, invece, gli risposi quasi gelandolo: “Papà, mi piacciono quelli con la maglia celeste…“. Diventai laziale così. Ero un tifoso accanito, andavo in trasferta, face­vo anche 14 ore di treno per seguire la squa­dra. Una volta a Brescia perdemmo male. E mi ritrovai, con altri cinque ragazzi , a conte­stare la Lazio. Faceva un freddo pazzesco. Ricordo Gigi Trippanera, il massaggiatore. Ci lanciò un secchio pieno d’acqua per farci andare via».

Poi cosa successe?
«Avevo lavorato a Milano in una compa­gnia aerea. Mi richiamò a Roma l’Itavia. E appena cominciai a guardare la lista dei clienti, mi accorsi della Lazio. Fu la prima società che andai a trovare. Il caso volle che proprio in quei giorni stavano organizzando la trasferta a Bergamo, dove volava l’Itavia. Così li accompagnai. Andò bene e al ritorno a Roma, lo ricordo come fosse adesso, dopo aver salutato tutti i giocatori, Maestrelli mi guardò e mi disse: “Allora Manzini, martedì ci vediamo al campo”. Cominciò una collabo­razione. La Lazio continuò a volare con Ita­via, io andavo a Tor di Quinto e iniziai a da­re una mano, riorganizzando il magazzino, inventariando i materiali. Nel ‘76 diventai di­rigente dell’American Express, ma il lega­me con la società biancoceleste stava diven­tando sempre più stretto».

Quando diventò un dipendente della La­zio?
«Nel 1988. Mi chiamò Giorgio Calleri. L’al­lenatore era Simoni. Mi disse che volevano ristrutturare la società, istituendo la figura del team manager, come aveva già fatto il Milan con Ramaccioni. Accettai l’offerta, ri­nunciando ad un posto di lavoro sicuro e pre­stigioso. Ho sempre pensato che se riesci a trasformare la tua passione in un lavoro sei un uomo fortunato».

Quante partite avrà visto dal campo?
«Non lo so. Minimo 1200. Senza contare le amichevoli. Non ho tenuto il conto».

Si ricorda la prima?
«Sì. Non fu fortunata. Perdemmo a Empo­li, arbitro Magni. Beccai 750 mila lire di mul­ta dal giudice sportivo perché i giocatori ave­vano i tacchetti troppo alti e il team manager doveva essere il garante del regolamento».

Qual è il ritiro che ricorda più particolare?
«L’anno dei meno 9 e della sventata retro­cessione in C. Allenatore Fascetti. Ci presen­tiamo a Gubbio con il pullman, troviamo l’­Hotel dei Cappuccini chiuso per restauro. Il proprietario dell’albergo ci aveva tirato la fregatura. Per fortuna, con Gabriella Grassi , trovammo una soluzione d’emergenza e il ri­tiro andò bene lo stesso».

Il derby più simpatico?
«Quello vinto 1-0, gol di Signori, arbitro Luci . Nel finale, per la tensione, scambio una punizione per il fischio finale. Entro in cam­po a festeggiare, poi mi accorgo che la parti­ta non è ancora conclusa e cerco di uscire al­la chetichella. Mazzone, appoggiato alla pan­china, mi guarda e fa: “Ah Manzì, ma ’ndo cazzo vai????“».

I giocatori che ha amato di più prima da ti­foso e poi da dirigente?
«Da ragazzo ero attratto da Bob Lovati e da Nello Governato, che in campo chiamavano il professore. Poi Chinaglia. In tempi più re­centi ce ne sono stati tanti. Da Signori a Mar­chegiani e Peruzzi, farei un torto agli altri. Ma nessuno s’offenderà se più di tutti ricor­do Mario Frustalupi. D’estate, quando la mo­glie restava al mare a Genova , mi chiedeva di andare a dormire a casa sua. Non ce la fa­ceva a restare solo. Gli ero legatissimo».

E Gascoigne?
«Avevo appena comprato una Lancia The­ma fiammante. Una volta me la rubò a Tor di Quinto e riuscì a nasconderla in palestra… La porta era strettissima, appena due metri. Ancora non mi spiego come potesse aver fat­to. Io impiegai più di un’ora per tirarla fuori senza uno sgraffio».

Si può raccontare delle sue interminabili partite a burraco con Delio Rossi?
«Beh sì. Ma giocavamo in coppia e non ci batteva nessuno. Vittime preferite durante il ritiro il dottor Roberto Bianchini e il cuoco Giocondo».

E gli altri allenatori?
«Fascetti era burbero e spontaneo. Di Zoff mi ha sempre colpito l’umanità, la disponibi­lità. Ricordo la meticolosità e l’attenzione di Mancini, che aveva preso da Eriksson . Con tutti mi sono trovato bene».

Zeman?
«Mi trovai bene anche con lui. Tanto che mi combinarono uno scherzo. Il boemo era appena passato alla Roma. Mi convocò in se­de Elisabetta Cragnotti e mi disse che Sensi aveva chiamato suo padre Sergio perché mi volevano contattare e portare in giallorosso. L’offerta era interessante. Aspettai un istan­te, ringraziai e dissi che non potevo accetta­re, sentendomi solo della Lazio. A quel pun­to De Mita e Cellini aprirono la porta e mi dissero che si trattava di un gioco. Ma io non ci avrei pensato neppure per scherzo».

Hanno fatto epoca i suoi muscoli fotogra­fati negli spogliatoi dopo l’ultima Coppa Ita­lia.
«Stavo solo strizzando la camicia. Diakitè mi aveva rovesciato addosso un secchio pie­no d’acqua».

Però si tiene in forma ed è vero che le so­no arrivate molte telefonate.
«Sì, vado in palestra, cerco di tenermi al­lenato. E quella foto deve aver fatto il giro d’Europa. Mi hanno chiamato gli amici team manager dell’Olympique Marsiglia e dello Spartak Mosca. Mi ha chiamato anche Salva­tore Scaglia, il collega della Roma. Era di­vertito e mi faceva i complimenti. Diceva di aver ricevuto una telefonata da Totti: “Hai visto Manzini come sta bene? Tu invece c’hai la panza…“».