Maurizio Manzini:"La mia Lazio, da Gazza a Rossi"
Campione dei team manager per militanza e interpretazione del ruolo, signore in panchina e ai bordi del campo di Formello, uomo senza età perché gli anni non si dicono.E’ come il segreto inviolabile dello spogliatoio. Maurizio Manzini, dirigente accompagnatore della Lazio, è l’anima operativa della squadra biancoceleste dai tempi di Maestrelli. Ha appena salutato Rossi e conosciuto Ballardini, fedele scudiero di qualsiasi allenatore transitato sulla panchina della Lazio. Approdo sicuro per tutti i giocatori, la discrezione è il suo stile . «Per riuscire in questo lavoro bisogna possedere la capacità di sapersi dare e non essere suscettibile. Nel gruppo devono sentirsi tutti trattati nello stesso modo. E poi ci vuole un’assoluta riservatezza. Io ho il mio ufficio vicino allo spogliatoio. Ma lo spogliatoio è sacro. E della riservatezza è doveroso farne una religione. In più, è necessario buttare l’orologio. Per fare il team manager non puoi certo timbrare il cartellino». Questa dote gli ha consentito di farsi riconoscere e apprezzare sotto ogni gestione, accompagnando gli ultimi quarant’anni (o quasi) di storia della Lazio, l’unica bandiera a cui si è consegnato. I presidenti passavano, lui restava, devoto alla causa.
«Dovrei citarne tanti. Calleri mi ha fatto diventare un dipendente, trasformando il mio sogno in realtà. E Cragnotti ci ha fatto vincere quasi tutto. Ma Lotito ci ha permesso di continuare a vivere. Ora, magari, verrò accusato di piaggeria. Io, però, sono laziale dentro. E non potrò mai dimenticare cosa passammo, con la squadra, nel luglio 2004. Ero in Giappone con 15 giocatori, non si sapeva niente del futuro della società. Rientrammo a Roma pensando che potesse concretizzarsi il fallimento. Tutti saremmo rimasti senza un posto di lavoro e la Lazio sarebbe sparita. Un dolore insopportabile. Lotito avrà i suoi lati spigolosi, però è il presidente che ha salvato la Lazio. E lo ha fatto lui, non altri ».
Ripartiamo dall’inizio. Come diventa laziale Maurizio Manzini?
«Non lo so, posso dire di essere l’unico in una famiglia di romanisti. Mio padre mi portò per la prima volta all’Olimpico in occasione di un derby, perso dalla Lazio. Alla fine, esultando, mi disse: “Maurizio, hai visto? Abbiamo vinto”. E io, invece, gli risposi quasi gelandolo: “Papà, mi piacciono quelli con la maglia celeste…“. Diventai laziale così. Ero un tifoso accanito, andavo in trasferta, facevo anche 14 ore di treno per seguire la squadra. Una volta a Brescia perdemmo male. E mi ritrovai, con altri cinque ragazzi , a contestare la Lazio. Faceva un freddo pazzesco. Ricordo Gigi Trippanera, il massaggiatore. Ci lanciò un secchio pieno d’acqua per farci andare via».
Poi cosa successe?
«Avevo lavorato a Milano in una compagnia aerea. Mi richiamò a Roma l’Itavia. E appena cominciai a guardare la lista dei clienti, mi accorsi della Lazio. Fu la prima società che andai a trovare. Il caso volle che proprio in quei giorni stavano organizzando la trasferta a Bergamo, dove volava l’Itavia. Così li accompagnai. Andò bene e al ritorno a Roma, lo ricordo come fosse adesso, dopo aver salutato tutti i giocatori, Maestrelli mi guardò e mi disse: “Allora Manzini, martedì ci vediamo al campo”. Cominciò una collaborazione. La Lazio continuò a volare con Itavia, io andavo a Tor di Quinto e iniziai a dare una mano, riorganizzando il magazzino, inventariando i materiali. Nel ‘76 diventai dirigente dell’American Express, ma il legame con la società biancoceleste stava diventando sempre più stretto».
Quando diventò un dipendente della Lazio?
«Nel 1988. Mi chiamò Giorgio Calleri. L’allenatore era Simoni. Mi disse che volevano ristrutturare la società, istituendo la figura del team manager, come aveva già fatto il Milan con Ramaccioni. Accettai l’offerta, rinunciando ad un posto di lavoro sicuro e prestigioso. Ho sempre pensato che se riesci a trasformare la tua passione in un lavoro sei un uomo fortunato».
Quante partite avrà visto dal campo?
«Non lo so. Minimo 1200. Senza contare le amichevoli. Non ho tenuto il conto».
Si ricorda la prima?
«Sì. Non fu fortunata. Perdemmo a Empoli, arbitro Magni. Beccai 750 mila lire di multa dal giudice sportivo perché i giocatori avevano i tacchetti troppo alti e il team manager doveva essere il garante del regolamento».
Qual è il ritiro che ricorda più particolare?
«L’anno dei meno 9 e della sventata retrocessione in C. Allenatore Fascetti. Ci presentiamo a Gubbio con il pullman, troviamo l’Hotel dei Cappuccini chiuso per restauro. Il proprietario dell’albergo ci aveva tirato la fregatura. Per fortuna, con Gabriella Grassi , trovammo una soluzione d’emergenza e il ritiro andò bene lo stesso».
Il derby più simpatico?
«Quello vinto 1-0, gol di Signori, arbitro Luci . Nel finale, per la tensione, scambio una punizione per il fischio finale. Entro in campo a festeggiare, poi mi accorgo che la partita non è ancora conclusa e cerco di uscire alla chetichella. Mazzone, appoggiato alla panchina, mi guarda e fa: “Ah Manzì, ma ’ndo cazzo vai????“».
I giocatori che ha amato di più prima da tifoso e poi da dirigente?
«Da ragazzo ero attratto da Bob Lovati e da Nello Governato, che in campo chiamavano il professore. Poi Chinaglia. In tempi più recenti ce ne sono stati tanti. Da Signori a Marchegiani e Peruzzi, farei un torto agli altri. Ma nessuno s’offenderà se più di tutti ricordo Mario Frustalupi. D’estate, quando la moglie restava al mare a Genova , mi chiedeva di andare a dormire a casa sua. Non ce la faceva a restare solo. Gli ero legatissimo».
E Gascoigne?
«Avevo appena comprato una Lancia Thema fiammante. Una volta me la rubò a Tor di Quinto e riuscì a nasconderla in palestra… La porta era strettissima, appena due metri. Ancora non mi spiego come potesse aver fatto. Io impiegai più di un’ora per tirarla fuori senza uno sgraffio».
Si può raccontare delle sue interminabili partite a burraco con Delio Rossi?
«Beh sì. Ma giocavamo in coppia e non ci batteva nessuno. Vittime preferite durante il ritiro il dottor Roberto Bianchini e il cuoco Giocondo».
E gli altri allenatori?
«Fascetti era burbero e spontaneo. Di Zoff mi ha sempre colpito l’umanità, la disponibilità. Ricordo la meticolosità e l’attenzione di Mancini, che aveva preso da Eriksson . Con tutti mi sono trovato bene».
Zeman?
«Mi trovai bene anche con lui. Tanto che mi combinarono uno scherzo. Il boemo era appena passato alla Roma. Mi convocò in sede Elisabetta Cragnotti e mi disse che Sensi aveva chiamato suo padre Sergio perché mi volevano contattare e portare in giallorosso. L’offerta era interessante. Aspettai un istante, ringraziai e dissi che non potevo accettare, sentendomi solo della Lazio. A quel punto De Mita e Cellini aprirono la porta e mi dissero che si trattava di un gioco. Ma io non ci avrei pensato neppure per scherzo».
Hanno fatto epoca i suoi muscoli fotografati negli spogliatoi dopo l’ultima Coppa Italia.
«Stavo solo strizzando la camicia. Diakitè mi aveva rovesciato addosso un secchio pieno d’acqua».
Però si tiene in forma ed è vero che le sono arrivate molte telefonate.
«Sì, vado in palestra, cerco di tenermi allenato. E quella foto deve aver fatto il giro d’Europa. Mi hanno chiamato gli amici team manager dell’Olympique Marsiglia e dello Spartak Mosca. Mi ha chiamato anche Salvatore Scaglia, il collega della Roma. Era divertito e mi faceva i complimenti. Diceva di aver ricevuto una telefonata da Totti: “Hai visto Manzini come sta bene? Tu invece c’hai la panza…“».